INLAND EMPIRE: sound-verse // a set Vanishes

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inland-empire.jpgPenetrare le regioni di INLAND EMPIRE puo esser difficile quanto uscirne; sarebbe divertente sostituire i custodi delle varie room con i guardiani del mausuleo Critico, quell’edificio per niente ec-centrico che ha rinunciato alla creatività teorica a favore di un’approssimazione cinefila e necrofila che recupera senza alcun timore del ridicolo parole come “senso”, “poetica”, “autore”, “cinema”, anzi “il cinema”. Tra i pericoli innescati dal nuovo film di David Lynch c’è anche quello di stimolare un’attività creativa notevole nei territori della critica usa e getta vicina per assimilazione a quella rock, abbacinata dalle illusioni del povero Lester Bangs e in realtà molto più normativa di quanto si vorrebbe far credere. Un’opportunità che andrebbe sfruttata, piuttosto che abbandonarsi alla pratica censoria della recensione. “Il cinema”, al contrario della fogna Rock può contare su un gabinetto di lusso come quello del sapere accademico, e in quei casi si tratta di affidarsi ad anni di faticosa ricerca, a canonizzazioni elergite con la stessa prudenza del Vaticano, a “testi-colonna” che siano in grado di sancire quella produzione di “senso” che foraggia con i fondi delle borse di studio un’editoria già destinata (per s/fortuna) alla disintegrazione. Forzare il linguaggio critico fuori dal recinto della crocifissione accademica, portarlo lontano anni luce dai sistemini di comunicazione degli uffici stampa, salvarlo dall’anemia dei giornalini televisivi, strapparlo dai fanzinari del cinema di genere, scaracchiarlo in gola alla cronaca, smetterla di pensare al “cinema” definitivo, o di illudersi di averlo visto, “il cinema”. Altrove c’è Vivian Sobchack, qui vicino probabilmente Enrico Ghezzi, in ambiti, con intenzioni e risultati diversi. INLAND EMPIRE si è configurato come corpus critico ancor prima della sua uscita; complice anche la rete neuronal-pubblicitaria Lynch che si è servita di Youtube, della branchia Avid-Digidesign e di altri trucchi, per diffondere l’illusione del puzzle. Ed è tra combinazioni Escheriane, sofisticati slittamenti della soggettiva, volontà esalate dalla pellicola, riferimenti neanche troppo (auto)suggestionati all’Imamura dei set che crollano, si chiudono e si vanificano in A man vanishes e indignazioni in odor di fuffa, che l’oggetto INLAND EMPIRE dissemina (anche) la sua materia sonora violenta, selvaggia, una Jam session dolorosa e liberatoria, fuori dal/nel tempo come nello spazio che Cassavetes/Wharol disponevano intorno a corpi, volti, performance. Sound design o lipsync hanno poca influenza sulla flagranza di questo realismo; si leggono deliri su un cinema che si farebbe installazione, come se Lynch fosse un qualsiasi Matthew Barney, accecato dall’intelligenza, da un tic a incastro, dai congegni da dissinescare e buttare. Il soundverse di INLAND EMPIRE è quello di una performance che supera il gioco combinatorio, immagine sciamanica o corpo digitale; scollamento della mirror.jpgvisione o sovrimpressione connettiva; due, tre , quattro film l’uno contro l’altro o una, potente, virale immagine politica; scatola chiusa oscura e terribile o percorso apertissimo, colpito da una luce che divora i contorni, cieca e piena di speranza; immagine digitale quindi codificata, invisibile, in nessunluogo, ancora nello stato di formazione e già vista, come il suono su acetato e ancora ri-trasmesso, ricodificato del più lungo show radiofonico prodotto nelle regioni del baltico; come le soggettive “dal niente” o da un “oltre” di Musikanten, L’impero del Male, Demonlover, tanto per tracciare un (personale) punto di vista sui tempi e la velocità di una DV.
Fino a Nina simone in un sync fasullo, carnale e fasullo come l’allure di una performance.
A San Rafael, Lynch leggeva le Upanishad.

We are like the spider. We weave our life and then move along in it. We are like the dreamer who dreams and then lives in the dream. This is true for the entire universe