giovedì, Aprile 25, 2024

Twarz di Małgorzata Szumowska – Berlinale 68, Concorso: la recensione

Volti scuri all’alba. Un assembramento davanti a un edificio. Un centro per l’impiego? Appena si aprono le porte, scatta la stampede in mutande. Tutti costretti a spogliarsi per lanciarsi come belve tra le corsie e azzuffarsi nel nome dei televisori scontati. Benvenuti nel capitalismo.

Twarz significa faccia, e Szumowska — insieme all’abituale collaboratore Michał Englert — realizza un film di facce, su quanto conti la facciata, sulla superficialità di un Paese, la Polonia, che pare governato dall’idiozia. Due i volti cruciali nell’economia del racconto: quello del protagonista Jacek e il muso enorme del Cristo di Świebodzin, la statua polacca eretta in mezzo al nulla che nel 2010 ha battuto il record di Rio de Janeiro.

Storia vera, così com’è vero un altro record che la Polonia si è appuntata al petto: il primo trapianto facciale, di cui ha beneficiato Grzegorz Galasiński nel 2013. Twarz prende spunto da questi due eventi e li fonde nella storia di Jacek, sfigurato da un incidente mentre lavora al volto della statua.

Jacek è un diverso salvato dalla bellezza. Sebbene il suo stile di vita metallaro entri in collisione con i valori della società rurale nel sud del Paese, tanto che al suo passaggio i vecchi si fanno il segno della croce e i bambini urlano Satanista!, Jacek è felice. Ha un lavoro, è fidanzato con Dagmara (l’ipnotica Małgorzata Gorol), non è ricco ma si sente libero. È uno dei pochi fortunati ad aver arraffato il televisore sottocosto.

Ma dopo l’operazione le cose cambiano, anche perché lo Stato non copre tutte le spese. Il nuovo Jacek, da principe azzurro metallaro a innocuo mostro di provincia, diventa un peso per la famiglia. La madre arriva a chiamare un esorcista. Dagmara non ne vuole più sapere.

Girato come una favola grottesca, Twarz assesta un cazzotto durissimo ai pilastri della società polacca. Lo strapotere della chiesa, la subalternità culturale al consumismo, i veleni insiti nella famiglia tradizionale, il razzismo feroce: tutto questo viene messo in evidenza, in croce, alla berlina. Un esempio? La barzelletta raccontata a tavola durante la cena di Natale. “Un musulmano, un ebreo e un nero si buttano da un palazzo. Chi vince?” “La società”.

Dal punto di vista tecnico spicca la fotografia di Englert, che ci restituisce fin dalla prima scena la percezione del mondo di Jacek operato. Lo fa mettendo a fuoco solo una porzione d’inquadratura — anche se si tratta di oggetti equidistanti dall’obiettivo — e cambiando spesso focus nel medesimo piano. Il trucco a cura di Waldemar Pokromski è eccezionale.

Szumowska realizza con Twarz uno dei suoi film migliori. Da “Ciało” (2015) mutua l’idea di un incipit surreale e pressoché autonomo, e rispetto a “W imię…” (2013) la critica sociale — soprattutto all’ipocrisia della chiesa — risulta molto più acuminata. “Elles” (2011) appartiene al passato: ora la regista affronta il proprio Paese senza filtri. La composizione del quadro si rifà alla pittura romantica polacca, e la scena che unisce un ballo sfrenato a ritmo di “disco polo” con una cavalcata da fiaba ha un impatto impressionante. L’umorismo caustico non regge fino alle ultime sequenze, ma la pellicola ha comunque molte frecce al proprio arco, e il fatto che si tratti di una produzione polacca al 100% sembra smentire la tesi che nel Paese della Madonna nera viga solo l’idiozia.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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