martedì, Marzo 19, 2024

Il vergine di Jerzy Skolimowski

Nel 1966 l’editore belga di riviste automobilistiche Jacques Ricquier regala una casa di produzione a sua moglie, la polacca Bronka Abramson, che ha la bizzarra idea di ‘commissionare un film d’autore’, che cavalchi la moda della Nouvelle Vague, a un giovane cineasta connazionale. Così nel febbraio 1967 arriva a Bruxelles il ventottenne Jerzy Skolimowski. I coniugi sono espliciti: il budget è vincolato al soggetto del film ovvero il mondo dei motori. Ma Skolimowski è uno chauffeur che, al di là della meta, decide la strada e con guizzo anarchico e creativo trasforma il product placement in arte. Da oggetto concupito, l’automobile si sublima in pura concupiscenza: il desiderio è guidare una macchina, non comprarla. Non è questione ideologica, beninteso. Semmai esistenziale, giacché riguarda la condizione dei giovani: mettersi al volante della vita guidando ad alta velocità, scartare su traiettorie nuove senza i cartelli piantati dai padri.
Di qui la sintonia profonda di Skolimowski con lo strappo eversivo della nuova onda francese e in particolare con il cinema di Jean-Luc Godard. Smania e mancanza di mezzi. Perché qui si parla di “ragazzi che hanno la patente ma non la macchina”, come sentenzia un vecchio in Barriera (1966), il film precedente del regista polacco, dove un giovane errabondo con valigia al seguito ingaggia un epico duello con un’auto ancora incellofanata. Ora eccola a disposizione, l’auto di lusso in terra francofona, e del cinema dei francesi Skolimowski prende a prestito gli elementi essenziali e li conforma alla sua indole. Oltre all’operatore Willy Kurant, ingaggia Jean-Pierre Léaud e Catherine Duport tutti reduci dal set godardiano del Maschio e la Femmina (1966). La storia è semplice: la rocambolesca giornata di Marc, un ragazzo col chiodo fisso dei motori, alla ricerca di una Porche con cui partecipare a una gara. L’esile soggetto lascia campo a un tripudio di immagini. Col suo taglio radente da outsider, che della marginalità fa un punto di vista privilegiato, Skolimowski attinge a piene mani all’armamentario godardiano. Affrancandolo dal pericolo incipiente della stilizzazione di maniera, ne fa sfoggio ludico, funzionale alla resa psicologica del protagonista.

La brama della velocità si traduce in gioco sfrenato (“il gioco del cinema si chiama motion picture … consiste nel fotografare il movimento” dirà in un’intervista) di immagini liriche, surreali, grottesche che assecondano gli accessi d’inquietudine di Marc per il desiderio ostacolato. La sua frustrazione è resa con eccessi, ellissi, scarti laterali (come il tram che schiva il tentato suicida). E con il frequente scollamento del sonoro, dove il limite tecnico (l’impossibilità di girare in presa diretta) diventa virtuosismo sintetico. Elementi accessori ingombrano l’inquadratura che lo sguardo dello spettatore è costretto a scavalcare (lampioni, ringhiere, cavalli in transito) con un senso di frustrata irritazione indotta (“tutto ciò che accade intorno deve provocare una certa irritazione in chi guarda. La vita ci irrita nello stesso modo” spiega il regista). Al cinema francese della parola si affianca un cinema dello spazio (lunghi piani sequenza e focali corte sature di dettagli) e del corpo, in cui Léaud esprime una fisicità inedita e dirompente: elastico come una molla, rimbalza contro le pareti anguste di androni e corridoi, scavalca cancelli e ringhiere; in frenetica corsa il suo corpo si camuffa (per svincolarsi) e si azzuffa (per affermarsi). La lotta è sempre fisica per l’ex boxeur Skolimowski. E l’élan vital è quella stessa forza primordiale della caccia e della trappola del suo ultimo Essential Killing (2010). Nel finale notturno uno scherzoso suicidio è l’ultimo gioco rituale e all’alba, col rombo dei motori della mancata partenza (Le Départ del titolo originale), lo sguardo di Marc al corpo nudo di Michèle è finalmente composto e pacificato. La pellicola brucia: Marc (Il vergine dell’edizione italiana) ha imparato “a distinguere ciò che è essenziale da ciò che non lo è, in poche parole, è diventato adulto.”

Orso d’Oro e premio speciale della critica al Festival di Berlino (1967). Eye Division, una delle label più recenti tra quelle distribuite dalla CG Home Video dedicate al cinema d’autore, propone la versione integrata dalle scene espunte dalla bigotta censura italiana (l’auto penetrata dal salsicciotto del venditore ambulante). Senza apparente restauro della qualità video originaria (bianco e nero poco contrastato, limite tecnico più evidente nelle scene notturne), la traccia video ha alcuni graffi presenti probabilmente nella stampa originale utilizzata per il trasferimento da pellicola a digitale, senza quindi nessun restauro evidente a partire dai master originali. Nella versione francese sottotitolata si apprezza meglio la versatilità interpretativa di Léaud (sussurrata, scandita, sibilata, farsesca). Il tema lirico della canzone di apertura, interpretata da Christiane Legrand, si alterna al free jazz sperimentale di Krzysztof Komeda (Don Cherry alla tromba, sax tenore di Gato Barbieri) la cui trama fu creata in contemporanea alle riprese.

Catia Renna
Catia Renna
Catia Renna ha studiato slavistica alla Sapienza di Roma, dove ha conseguito un dottorato di ricerca. Ha tradotto le opere di Viktor Pelevin. Ha lavorato come consulente e addetta stampa per alcune produzioni cinematografiche russe e italiane. Ha pubblicato uno studio sull’immaginario letterario russo nel cinema gotico di Mario Bava. Vive a Milano.

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