venerdì, Ottobre 11, 2024

Bobo Rondelli, la cultura viene dalla terra: la foto intervista

Il primo accostamento che viene naturale fare quando si cita Bobo Rondelli è quello con Livorno, la sua città, quella che fa da sfondo alle sue canzoni, quella che ha influito sul suo modo di essere e di fare. Ridurre però la sua arte a semplice espressione di provenienza geografica è molto riduttivo: nelle sue canzoni è possibile infatti trovare molto di più, messaggi e sentimenti universali, che trovano la loro massima espressione durante i concerti, nei quali Bobo dà sfoggio delle sue istrioniche doti di cantante, attore ed intrattenitore. Lo abbiamo incontrato proprio prima di un suo show, quello tenutosi al Carroponte di Sesto San Giovanni lo scorso 28 agosto dove ha portato sul palco, oltre al suo vastissimo repertorio, i brani dell’ultimo lavoro pubblicato recentemente da Ponderosa Music&Art e intitolato A Famous Local Singer, di cui abbiamo parlato approfonditamente qui su indie-eye.it. La data era una delle ultime del tour estivo prima della tranche autunnale-invernale, che lo porterà in teatri e club di tutta Italia, per una serie di serate all’insegna della sua livornesità universale e, naturalmente, di grandi canzoni. Ecco cosa ci ha detto su di sé, sulla musica, sul cinema e molto altro.

La prima domanda è sulla ragione sociale del nuovo album e tour, Bobo Rondelli e l’Orchestrino. Perché non c’è più solo il tuo nome? E perché l’Orchestrino al maschile?

L’Orchestrino è una scelta del gruppo, si sono dati questo nome già prima di suonare con me. Credo sia una scelta volutamente sgrammaticata, per omaggiare la sgrammatica. Poi credo che “orchestrina” si sia già usata tante volte, anche da Paolo Conte nell’ultimo album. Compaiono anche loro perché il disco l’abbiamo fatto assieme ed essendo un album più musicato che parolato è stato giusto che comparisse anche il loro nome.

La recensione di Elia Billero descrive il tuo disco come “un biglietto da visita bagnato dal vino trovato in Terrazza Mascagni, una risata che echeggia in qualche pub dopo una lite furibonda, una vita spesa e non lasciata spendere dalle vicende degli altri”. Che ne pensi?

Io mi sintetizzo con una frase che forse le dice tutte insieme: il tempo che mi resta voglio morirmelo come cazzo mi pare a me. Alle volte siamo presuntuosi pensando di vivere, invece ogni attimo moriamo. Sembra una frase negativa, invece è forse prendere coscienza della realtà, e forse sintetizza ancor più la definizione che mi hai detto.

Il titolo dell’album, A Famous Local Singer, mi ha fatto pensare a come vengono trattati i cantautori che sono abbastanza radicati sul territorio, come te o Folco Orselli a Milano e Pino Marino a Roma, che spesso sembrano condannati al ruolo di artista locale, mentre in passato c’erano più possibilità di emergere, come Jannacci ad esempio. Sei d’accordo? E il titolo parla anche di questo?

Il titolo è nato per quello che c’è scritto su un cartello turistico della città, fuori dallo zoo dove c’è un orso, Gigiballa, di cui un famoso cantante locale, cioè io, ha narrato la storia. C’è anche la traduzione in inglese, in cui c’è scritto “the very famous local singer”. Questo mi è piaciuto, mi ha fatto ridere. Comunque è vero anche quello che dici, proprio oggi sentivo dire alla radio che emergere per cantanti che cantano luoghi è più difficile. Si tende sempre a raccontare queste storie di idiozia d’amore, che vorrebbero essere nazionali e secondo me spesso sono solo molto adolescenziali. Jannacci probabilmente era grande perché faceva anche canzoni in dialetto e riusciva a farle capire a tutti; io stesso sono amico di Franco Loi, che è un poeta milanese che scrive esclusivamente in milanese, perché è la terra su cui ci si trova che suggerisce la parola, spesso più del significato stesso di ciò si dice. Spesso quando parliamo siamo un tramite tra la terra e gli altri, se parliamo il suo linguaggio. Per esempio una volta mi sono trovato a Polignano a Mare, dove è nato Modugno, un bambino s’era perso in acqua e sono usciti fuori suoni, come se fossero usciti dalla terra, di donne che urlavano e sembrava si capissero solo tra loro: in realtà era la terra a parlare attraverso di loro. Io ridarei un significato alla parola “cultura”, sono loro le persone a cui legarlo. Quando evitiamo di parlare con il nostro accento madre, facciamo un lavoro che non è culturale, perché non viene dalla terra.

Nel disco proponi anche vecchi brani rielaborati con l’Orchestrino. Com’è stato lavorare sui nuovi arrangiamenti? Sono nati live o in studio?

Sono nati live, perché ci siamo trovati spesso con l’Orchestrino a suonare per strada, e quindi più live di così… l’Orchestrino è nato anche per andare incontro alla crisi, se non c’è corrente elettrica, se ci staccano anche quella, possiamo andare a suonare nei mercati e alle feste, son riuscito una volta anche a interrompere una scuola, le lezioni di una scuola elementare. Mio figlio mi avevo chiesto di andare a farlo, tanto erano gli ultimi mesi, abbiamo iniziato fuori poi ci hanno invitato all’interno del cortile e abbiamo fatto una festa lì. C’è questa possibilità girovagante con l’orchestrino rispetto ad altre formazioni. Quindi molti arrangiamenti son nati così, suonando in un parco e provando direttamente con i passanti, per vedere di nascosto l’effetto che fa, come diceva il maestro citato prima.

Molti brani si rifanno ad atmosfere anni Trenta. Cosa ti piace della musica di quel periodo?

Natalino Otto è sempre un piacere sentirlo. Mi piace anche quando Paul McCartney nelle sue canzoni riprende un po’ quelle sonorità. Poi lo swing, col suo ritmo e il suo divertimento. Poi la canzone a cui forse ti riferisci, Che gran fregatura è l’amor, fa ridere, perché ha l’atmosfera anni Trenta, ma poi dico che palle stare insieme a te.

Ci sono anche due cover di Celentano. Perché questo omaggio verso di lui?

Perché si presta bene ad essere suonato per strada, è venuto fuori da sé. Questi brani che facciamo sono immediati, colpiscono subito la gente che passa. 24000 baci penso sia un brano che fa ballare nonnetti, babbi, zii, chiunque, ha quei quattro ye-ye che sono meglio anche di quelli che facevano i Beatles. È una gran canzone, poi l’abbiamo riarrangiata un po’ in stile balcanico, ispirandoci al film di Kusturica Ti ricordi di Dolly Bell? [continua nella pagina successiva]

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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