venerdì, Ottobre 4, 2024

Il Coltello nell’acqua di Roman Polański

Siamo nel 1961 e, mentre si parla di disgelo sovietico, alcuni burocrati polacchi respingono il copione del primo lungometraggio di un giovane regista esordiente tacciandolo di individualismo e deviazionismo filoborghese: è la storia di una coppia di facoltosi coniugi che si imbattono in un autostoppista e finiscono per trascorrervi insieme una giornata in barca a vela sul lago, con successivo diverbio e annesso incidente. Una storia privata (grave pecca!) e priva di afflato patriottico realsocialista. Ma siccome il vento intanto è cambiato e va varato un nuovo corso (così avranno pensato), almeno meglio che sia in acque quiete, piuttosto che in mare aperto: il ragazzo in fondo è già navigato (ha lavorato con Andrzej Wajda) e il suo saggio di diploma ha mietuto premi da Bruxelles a Oberhausen. Così un anno dopo riconsiderano la cosa e gli danno il via libera, tranne pentirsene alla prima proiezione quando il gran capo del partito in persona, Władysław Gomułka, irritato oltremisura, scaglia un portacenere contro lo schermo (così si dice). Il giovane regista si chiama Roman Polański e dalle stagnanti acque polacche il suo film approderà al Lido di Venezia (premio FIPRESCI). Con la prima nomination polacca agli Oscar passerà meritatamente alla storia come uno dei più folgoranti esordi cinematografici.

Il successo occidentale va forse ascritto a un certo riverbero nel film dei temi sociali più caldi dei primi anni Sessanta, dalla crisi del matrimonio borghese, alle avvisaglie di contestazione giovanile. Temi che in realtà sono solo accennati con intento tutt’altro che sociologico e semmai impiegati a beneficio di una più netta definizione delle forze in campo che collidono in un ambiente asfittico, detonatore di tensioni tutte e solo umane. Perché Il coltello nell’acqua è un thriller psicologico, più che un pamphlet sociale, una ‘situazione’ individuale più che una ‘condizione’ collettiva, se è vero che il ragazzo, che fa l’elogio dell’andare a piedi quando intorno fanno sfoggio di veicoli, è solo il primo di una lunga serie di outsider polanskiani che incappano in un ambiente estraneo e intollerante (dal dottor Walker disorientato in una Parigi ostile di Frantic, al raggirato ghostwriter di L’uomo nell’ombra, fino al negletto capitano Dreyfus prossimo venturo). Questa è una storia di provocazioni e reazioni, pulsioni di difesa e di attacco aizzate dalle circostanze e amplificate dall’ambiente. Che non a caso è il lago di Giżycko, luogo germinatore di tutti i topoi acquatici di Polański connessi all’isolamento che cela un pericolo letale (la marea di Cul-de-sac), all’occultamento di una vittima (la vasca da bagno di Repulsion e Chinatown) e in generale all’ignoto che incalza i luoghi costieri con le case isolate, scenario prediletto di molti suoi film. L’angustia dello spazio della barca (come la nave da crociera di Luna di fiele) amplifica l’attrazione tra due polarità maschili contrastanti (il ragazzo istintuale e l’adulto razionale) e, andando a smuovere le profondità emotive, scatena l’azione. La forza simbolica di un coltello fa da deflagratore. Il simbolismo fallico è riversato sull’oggetto e l’oggetto a sua volta si riverbera in una proliferazione di altre immagini: il dito, l’albero maestro, i bastoncini dello shanghai, il manico della pentola bollente, il timone della barca; tutti oggetti con cui i due uomini si misurano.

Andrzej è l’uomo che trae la sua forza dal controllo, vuole essere al volante o al timone, rivendica la supremazia dell’ingegno sull’istinto. Ma è anche l’uomo adulto che non agisce più, che ormai è una specie di voyeur delle azioni altrui (fa il cronista sportivo) e gioca con il coltello del ragazzo, ne è attratto, se ne appropria. Se l’uomo fa l’elogio della disciplina, il ragazzo autostoppista si fa forte della sua anarchia: è goffo, impulsivo, avventato, provocatorio, libero e soprattutto giovane. L’opposta polarità è anche visivamente sottolineata dalla corporatura (robusto/gracile), dall’abbigliamento (bianco/nero) e soprattutto dal loro rapporto con la donna. Perché l’arma simbolica del duello fallico è mirata alla contesa di Krystyna, la giovane moglie di Andrzej, la quale assiste alla tensione crescente con pacata e divertita distanza, governando da sola, dopo lo scontro finale, la barca fino a riva con evidente simmetria rispetto all’esordio del film, dove era al volante. Sono uguali, i due uomini, sentenzia lei alla fine: il giovane diventerà come l’adulto. Nella simmetria del finale rispetto alla situazione di esordio ecco emergere la prima traccia dell’onirismo iperrealistico marchio di fabbrica del regista polacco: la circostanza che i due coniugi abbiano un nome ma il ragazzo no e che la barca Christine abbia lo stesso nome della donna instillano il sospetto di un’allucinazione condivisa, l’esplorazione di una zona d’ombra tra due versioni dei fatti (“l’ombra è teatro di prodigi”, declama il ragazzo in una poesia improvvisata di notte). Krystyna/Christine è il luogo oscuro del femminile, la potenza ignota fluida e liquida del lago da cui i due uomini emergono stravolti e mutati. E questa muliebre occulta potenza esploderà nel film successivo (Repulsion) e sarà l’impronta più forte che Polański attribuirà a tutti i suoi futuri personaggi femminili (da Rosemary, a Simone dell’Inquilino del terzo piano, a Tess, a Paulina della Morte e la fanciulla), insieme vittime e carnefici di uomini. Per questo al centro dell’inquadratura e in primo piano, a far da cornice all’azione, c’è sempre il corpo di Krystyna. Perché l’ambivalenza dei fatti e l’equivalenza tra verità e menzogna (il ragazzo che mente, la donna che confessa ma non è creduta) hanno come fulcro il suo corpo che si mostra addomesticato sulla terraferma (in occhiali e chignon borghesi), selvatico e nudo nel suo elemento naturale. E il suo corpo, ripreso in profilo orizzontale davanti a una fila di alberi-coltello, si fa paesaggio psichico. Polański più che storie crea stati mentali. Il coltello nell’acqua è un film eminentemente di regia. Dall’estetica sprigiona il contenuto più che il contrario. L’impareggiabile invenzione prospettica, nello spazio ristretto di un’automobile e (ancor più virtuosisticamente) di una barca, la messa in scena calibrata al millimetro, la visionarietà superlativa rendono il quadro sempre vivo e vibrante.

Travolgente come un’onda, tesa come una fune e penetrante come un coltello, l’opera prima di Polański non fa, del resto, eccezione al presupposto comune della sua generazione: penuria di mezzi e profluvio d’ingegno, il motto perfetto dei ragazzi della ‘nuova onda’ polacca, usciti tutti dalla scuola di cinema di Łódź (che in polacco significa ‘barca’). E gli elementi infatti sono pochi ma di grande effetto: lo spazio essenziale del lago, un canneto, una boa e un temporale sono gli unici espedienti narrativi. Soltanto tre gli attori, di cui due – a parte il grande Leon Niemczyk – non professionisti, ma ben calibrati rispetto ai personaggi: Zygmunt Malanowicz reattivo, beffardo, acerbo alter ego del regista (a cui infatti lui stesso darà la voce in doppiaggio) e Jolanta Umecka, la nuotatrice di cui Polański nelle sue memorie lamenterà una certa ottusità, in fin dei conti perfetta nella sua carnale avvenenza e nella pacata distanza dalle spirali emotive che l’assediano. L’ingegno invece è tutto nella squadra di giovani professionisti coinvolti nell’impresa, a partire da Jerzy Skolimowski che mette mano alla sceneggiatura compattandola in un’unica giornata, suggerisce il finale aperto con il ragazzo che torna in scena invece di annegare (come nella prima versione) e scrive dialoghi serrati e allusivi che il jazz con venature ora morbide ora nervose (ondeggianti) di Krzysztof Komeda sottolinea nei passaggi essenziali. Il clan affiatato dei giovani huligany è al completo aggiungendo allo script la penna di Jakub Goldberg. Le cronache narrano che anni dopo a Hollywood al regista proposero un remake con Spencer Tracy ed Elizabeth Taylor. Polanski rifiuterà di ripescare dall’acqua quel coltello.

La recente versione blu-ray edita da Pulp Video difetta di interventi di restauro video ed audio, ripropone un paio di passaggi in lingua originale sottotitolati per tagli originari e non contiene extra, a parte una galleria fotografica con fotogrammi del film e un paio di scatti che testimoniano le difficoltà delle riprese: l’operatore Jerzy Lipman mentre girava legato all’albero maestro. Pare che la sua Arriflex cadde in acqua e giaccia ancora in fondo al lago, insieme al coltello. Come a dire che certi film restano, dopo tutto, sempre insondabili.

Catia Renna
Catia Renna
Catia Renna ha studiato slavistica alla Sapienza di Roma, dove ha conseguito un dottorato di ricerca. Ha tradotto le opere di Viktor Pelevin. Ha lavorato come consulente e addetta stampa per alcune produzioni cinematografiche russe e italiane. Ha pubblicato uno studio sull’immaginario letterario russo nel cinema gotico di Mario Bava. Vive a Milano.

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